In questo articolo coraggioso, un giornalista del
quotidiano arabo internazionale «Al Hayat» passa in rassegna i
meccanismi psicologici del fanatismo religioso islamico FINO all’età
di sei o sette anni, il bambino s’immagina il centro dell’universo.
Non presta attenzione a nulla che possa ricordargli la realtà che lo
circonda e si accontenta delle sue illusioni su se stesso e sul mondo.
Poi, a poco a poco, finisce per riconoscere il principio di realtà.
Alcuni adulti, però, non riescono ad andare oltre questo stadio di
egocentrismo infantile e passare dall’autosoddisfazione
all’autocritica. Questo è esattamente ciò che capita a noi arabi, a
livello di popolo come di élites. Uno dei sintomi di questo male sta
nel nostro atteggiamento di fronte agli attentati suicidi dell’11
settembre. Le élite occidentali hanno cominciato a interrogarsi e a
rivedere le loro certezze, cercando i disequilibri politici,
economici, psicologici e etici che potevano essere all’origine di quei
fatti. Ora si sforzano di pensare un mondo diverso, sotto tutti i suoi
aspetti, mentre noi ci poniamo sempre come vittime eternamente
innocenti e restiamo incapaci di comprendere intimamente il mondo, che
combattiamo con il terrorismo, protestando davanti alle sue proteste,
impaurendoci delle sue paure - giustificate - nei nostri confronti.
Basta un lapsus infelice di un intellettuale o di un dirigente
occidentale perché ci mettiamo a urlare al lupo e a esigere
riparazioni politiche e simboliche. I discorsi razzisti che i nostri
media vomitano tutto il giorno, il nostro odio primitivo per l’altro,
le nostre violazioni quotidiane dei valori umani, il nostro disprezzo
ostinato dei diritti delle minoranze, delle donne, dei bambini, dei
lavoratori (operai privati del diritto di organizzarsi e scioperare,
donne di servizio trattate come schiave nella maggior parte delle
nostre nazioni e così via), tutte queste pratiche appaiono
irreprensibili nel nostro mondo arabo-islamico, il migliore dei mondi
possibili. La sua violenza è una Jihad, i suoi assassini degli «eroi»,
i suoi kamikaze dei «martiri». Noi che siamo il fanalino di coda in
tutti i settori e siamo ben decisi a non ripetere i due salti di
qualità del Giappone, dall’arcaismo alla modernità e dal fascismo alla
democrazia, noi non ci siamo mai chiesti perché fossimo andati ben
oltre questo Paese calamitoso che inventò i kamikaze. Perché noi
siamo andati ben più lontani dei kamikaze giapponesi e pagani,
quantitativamente e qualitativamente. Quelli dovevano mandare gli
aerei in picchiata sulle navi da guerra americane, con un solo ordine
in testa: non restare vivi. I nostri kamikaze si fanno esplodere in
mezzo ad adolescenti ebrei in coda davanti a una discoteca e si
lanciano con aerei civili dirottati su migliaia di innocenti. E
intanto le folle danzano evocando le loro alte gesta, le élite
salutano il loro eroismo e si prega per le loro anime pure. Andrò
dunque controcorrente e parlerò schietto: tutte le suddette violazioni
dei diritti dell’uomo e tutta questa violenza sono il frutto del
fanatismo che noi produciamo e riproduciamo in grande scala nel nostro
sistema educativo e nei media. Come definire il fanatismo? Per dirla
in breve, si tratta della nostra incredibile capacità di sacrificare
gli altri e noi stessi per assicurare la vittoria delle idee della
comunità - idee alle quali noi crediamo al modo dei grandi sacerdoti
di Iside, che entravano in una trance sacra e si automutilavano
ferendo gli altri per scaricare i conflitti interiori che ribollivano
in loro. Un fanatico è un drogato della sua causa e, come ogni
drogato, è incomprensibile. Fanatismo e terrorismo, fratelli siamesi.
Quali ne sono gli aspetti e le cause? Innanzitutto, il narcisismo.
Esso eleva l’egocentrismo individuale o collettivo al di sopra di
tutti gli altri io, rifiutando di riconoscere la realtà quale essa è.
Il fanatico è incapace di ammettere la realtà. Per farlo, dovrebbe
riconoscere l’altro e accettare di dipendere da lui. Questo rifiuto
della realtà è causa di deliri narcisistici, megalomania e disprezzo.
La svalorizzazione dell’altro è necessaria per ridurlo a entità
malefica, da odiare e sradicare. La semplice differenza viene vissuta
dal narciso fanatico come una ferita, un attentato imperdonabile alla
sua fiducia in sé, una castrazione. Il culto del «padre sociale». Si
tratti del capo politico o dell’imam, non esiste fanatismo senza
leader, perché questo risponde a un bisogno infantile di andare dietro
qualcuno. Chi ama sottomettersi ha bisogno di appoggiarsi a una
personalità forte, a un’autorità che possa realizzare
contemporaneamente il suo bisogno di protezione e di onnipotenza.
L’odio dell’individuo. Il fanatico odia l’individuo in quanto suo
assoluto contrario: uno che si è sbarazzato del bisogno della
protezione patriarcale, un adulto capace di prendere in mano il
proprio destino e scegliere i suoi valori indipendentemente dalla
società, soprattutto da una società tradizionale che nega l’individuo.
Quest’ultimo è immerso nel quotidiano, nell’effimero e
nell’accessibile; non è attirato dai sogni grandiosi o dalla ricerca
fittizia di un paradiso perduto o di un’età dell’oro. Il fanatico
invece si precipita a difendere con le unghie e coi denti tutto ciò
che è tradizionale, totalitario e collettivo. I fanatici, come tutte
le personalità deboli, trovano nella collettività un rimedio al loro
senso di inferiorità e cercano nei suoi grandi miti un riferimento
superiore. L’anarchico russo Kropotkin (1842-1921) non affermava
forse che il suo amore per l’umanità non lasciava nel suo cuore spazio
alcuno per un essere in particolare? L’ostilità di fronte alla
modernità. Il fanatico religioso si oppone alla modernità in quanto
essa implica la cittadinanza e i diritti dell’uomo, esalta un
trattamento egualitario di tutte le razze e fa della democrazia una
condizione si ne qua non» della legittimità del potere. Tutti questi
valori vengono vissuti dal fanatico come un attentato alle basi stesse
della sua esistenza, giacché lui non può esistere se non attraverso il
dominio di una razza sull’altra,di una cultura sull’altra, di una
religione sull’altra, della teocrazia sulla democrazia, dell’uomo
sulla donna. Perché il fanatico preferisce uno Stato religioso a uno
Stato laico e democratico? Perché la democrazia è caratterizzata da un
vuoto di potere, un’assenza di leader. La democrazia preferisce il
negoziato, il dibattito e il voto. Il suo peccato è quello di
costringerci a riflettere, ad assumerci le nostre responsabilità. Essa
è dunque odiata in blocco, odiata di un odio fobico, dal fanatico
chiuso in uno pensiero sclerotizzato, vale a dire incapace di mettersi
nella pelle dell’altro per capire l’altrui punto di vista, incapace di
dibattere razionalmente, di riconoscere la pluralità e la possibilità
di coesistenza pacifica dei contrari. Il rifiuto del relativismo.
Questo nega alle culture la pretesa di presentare i propri valori come
universali e metastorici, validi per tutti, in ogni luogo e in ogni
epoca. Il fanatico ha bisogno di certezze assolute per evitare di
riflettere. Se riflettesse, rischierebbe di cadere nell’errore. Nella
religione, è il testo che interpreta noi. Noi non abbiamo il diritto
di interpretarlo nel senso di adattarlo alle esigenze del momento. Il
fanatismo religioso è presente in tutte le derive dogmatiche delle
religioni, deformando la Storia e deformando noi in quanto soggetti
pensanti. E’ diventato difficile, nelle scienze moderne, aggrapparsi a
certezze indubitabili. Il dubbio e il dubbio sul dubbio sono la
regola, non l’eccezione. Ma il dubbio non si insinua mai nel pensiero
del fanatico, che sa dove si trovano il vero e il falso, chi sono i
buoni e i cattivi. Il fanatico non prova angoscia al momento della
scelta, anche se si tratta di strappare la vita a degli innocenti,
soprattutto se nel procedere è confortato da un parere favorevole da
parte delle autorità superiori, come la fatwa di un ulema che gli
permette di raggiungere l’élite camminando sui corpi delle sue
vittime. L’entusiasmo delirante per la guerra santa. E’ la guerra lo
strumento più capace di affrancare l’istinto di morte da tutti i suoi
freni morali e trasformare l’assassino in un martire della fede. Ieri
si sacrificavano gli altri in nome della purezza della razza; oggi lo
si fa in nome della purezza dell’identità religiosa. Ma la religione
non è che un debole pretesto per tranquillizzare la coscienza e
legittimare il fatto di uccidere. La sharia del fanatico è in realtà
una legge della giungla in cui i massacri all’ingrosso o al dettaglio
sono un hobby e l’incitamento all’assassinio un dovere religioso. Per
un puro caso, il settimanale «Le Renouveau», organo degli islamici
marocchini «moderati», che contano tre deputati al Parlamento, lo
scorso 12 settembre, l’indomani del «martirio» dei kamikaze a New
York, pubblicava un parere giuridico, una fatwa, emessa dal «Grande
Saggio» Abdel Bari Zamzami. Il titolo era «Il martirio». Dopo le
recenti rivelazioni di un agente segreto marocchino sui dettagli
dell’omicidio perpetrato da Oukfir contro Mehdi Ben Barka, la stampa
marocchina discute quotidianamente del «martire Ben Barka». E’ così
che, per collocare gli elementi religiosi bene al loro posto, il
nostro grande saggio scriveva nella sua fatwa: «Come si potrebbe
definire martire colui il cui assassinio è giustificato, senza
considerare chi l’ha ucciso? Se fosse stato possibile ucciderlo tre
volte, farlo sarebbe stato un dovere secondo la legge di Dio». No
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